Islanda, agosto 2015 |
Riconobbi l'ambiente a prima vista: una pianura pressoché priva di vegetazione ad alto fusto e ricoperta a perdita d'occhio di polvere di lava nera, testimonianza di eruzioni passate, assai simile nel mio immaginario alla Terra di Mordor di tolkieniana memoria; un cielo plumbeo ed un'atmosfera perennemente ventosa, ma nello stesso tempo anche una visibilità perfetta fino all'orizzonte a causa dell'assenza di qualsiasi tipo di foschia; ad interrompere la monotonia, le poche macchie di intenso colore costituite dai colli verdi di muschio chiaro e quasi brillante. Un paesaggio che molti potrebbero dunque definire arido, sterile e perfino spaventoso: in verità, perfino in questo primordiale ed inospitale deserto freddo ho avuto modo di scoprire personalmente come la vita, sebbene a livelli pionieristici che ispirano talvolta un sentimento di commozione, si dà da fare in maniera inaspettata. Su queste sabbie nere spazzate dal vento può infatti crescere timido il tarassaco come sui prati di casa mia, insieme ad altre piccole e colorate infiorescenze dal temperamento eroico.
Il 2015 è stato l'anno del mio vulcanesimo-fai-da-te, e conservo di questi luoghi un ricordo legato prima di tutto alla severità degli elementi naturali che non concedeva sconti a nessuno, nemmeno nella parte centrale dell'estate: pioggia sferzante a caduta orizzontale che rendeva del tutto inutile il possesso di un ombrello (rimasto all'asciutto nel bagaglio per un'intera settimana); un vento indomabile che non manifestava alcun apparente scrupolo a strapparti di dosso perfino un coprizaino di tela correttamente montato; un amico quasi stordito dai brividi a causa di un vestiario troppo leggero ed in difficoltà dopo una lunga camminata nella neve marcia; il senso di pericolo incombente che ti assaliva improvvisamente quando si alzava la nebbia e diventava difficile distinguere il suolo innevato dallo spazio aperto che ti circondava; il tutto, condito da un pervasivo odore di uova marce che proveniva dalle numerose solfatare sparse qua e la in mezzo ai ghiacci.
Ho parlato di vulcanesimo,
Eyjafjallajökull, agosto 2015 |
Il programma originale del nostro viaggio prevedeva per l'ultima tappa una salita lungo i suoi fianchi innevati, l'attraversamento del valico di Fimmvörðuháls e la discesa finale passando per le cascate di Skógafoss. Il tempo meteorologico tuttavia dispose altrimenti, e la pioggia ci obbligò al rientro anticipato a Reykjavik. Un po' di delusione era inevitabile, attenuata forse un po' dal sollievo di poter finalmente acquistare in qualche negozio tutto il necessario per lavarmi i denti e farmi la barba: avevo infatti perso già nel primo rifugio del trekking la mia busta da viaggio con tutto il necessario per l'igiene personale (a parte un po' di sapone concesso con generosità dagli amici per la doccia d'ordinanza), ed il mio alito rappresentava dunque un problema di non secondaria importanza.
Guerre Stellari a parte, al mio rientro dall'isola di fuoco un'amica mi chiese come avevo trovato l'Islanda. Io risposi con tre aggettivi: severa, primordiale, affascinante. Proprio per questo, ho una gran voglia di ritornarci e spero che in futuro me ne capiterà l'occasione.
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