giovedì 29 dicembre 2011

I LUCERTOLONI DEL PELMO

Ancora dinosauri sul monte Pelmo? Leggiamo sul notiziario telematico padovaoggi.it la notizia di una possibile nuova scoperta paleontologica su una delle principali vette dolomitiche bellunesi, oggi Patrimonio UNESCO dell'Umanità anche in virtù delle numerose testimonianze geologiche come questa. Stando a quanto raccontato dal paleontologo veneto Matteo Belvedere, una nuova serie di impronte fossili di rettili preistorici sarebbe stata rinvenuta molto in alto sulla montagna, a circa 3000 metri di quota sullo spallone nord–est. Nella zona del monte Pelmo, e più precisamente alla base dell'adiacente Pelmetto, esiste già dagli anni Ottanta del secolo scorso un altro importante sito scoperto dal ricercatore Vittorino Cazzetta e documentato nel museo di Selva di Cadore a lui intitolato.

Riporto di seguito un breve estratto dall'articolo.

Paleontologo padovano: «Impronte di dinosauro in cima al Pelmo»
Per l'esperto, Matteo Belvedere dell'Università di Padova, le depressioni di circa 15-20 centimetri di lunghezza trovate sulla cresta dello spallone nord-est del monte, tra le nuvole, potrebbero essere delle orme di un dinosauro carnivoro.

[...] FORSE IMPRONTE. La scoperta sulla cresta dello spallone nord-est, tra le nuvole, da parte di un gruppo di cinque speleologi e alpinisti. Esaminando la roccia hanno notato una pista di cinque probabili impronte disposte in un'unica direzione, a distanza regolare l'una dall'altra. Per il paleontologo Matteo Belvedere dell'Università di Padova: «Le depressioni sono quasi tutte circondate da un rilievo, un orlo, detto bordo di espulsione, che indica che la depressione non è legata al carsismo bensì all'impressione di un oggetto nel sedimento».

DINOSAURO MEDIO-PICCOLO. In base al loro allineamento, secondo l'esperto, le depressioni possono essere interpretate come orme di un animale bipede, ipotesi che sarà suffragata solo da ulteriori rilievi: «Le dimensioni delle orme e l'andatura verosimilmente bipede - dice Belvedere - lasciano supporre che si possa trattare di un dinosauro carnivoro di dimensioni medio-piccole, di circa tre o quattro metri di lunghezza, simile ad un Coelophysis». [...]

Il testo completo dell'articolo è reperibile qui.

martedì 20 dicembre 2011

IL PIEDE DENTRO LA PORTA

La libertà di licenziare non ha proprio nulla da spartire con le politiche per rilanciare l'occupazione: questo lo può intuire anche un analfabeta. Si tratta soltanto del classico “piede dentro la porta” che apre la via a nuove forme di abuso e prevaricazione nei confronti dei lavoratori dipendenti.

Ad ogni modo, poiché Governo ed Industriali sembrano seriamente intenzionati ad affondare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ed accusano nello stesso tempo le controparti di non essere disponibili al dialogo, è fondamentale non stare con le mani in mano e giocare al rialzo.

Dipendesse da me, io farei così. Vogliono discrezionalità nel mandare a spasso gli operai? E sia pure, se la prendano. Nemmeno un cane scodinzola tuttavia per niente, come dicono dalle mie parti. In economia di mercato tutto ha un prezzo, e se vogliono mano libera con i licenziamenti si rende necessario introdurre alcuni provvedimenti già oggi in vigore negli stati più avanzati del mondo:
  1. aumento delle retribuzioni in misura compresa tra il 30% ed il 40%;
  2. soluzione definitiva al problema delle morti bianche e della sicurezza sui luoghi di lavoro, con l'introduzione di pene adeguate alla gravità delle violazioni;
  3. diritto di partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori ai consigli di amministrazione delle imprese, con pieno diritto di voto in qualsiasi materia, compresa la nomina e la revoca dei manager.
Fantascienza? Può anche darsi, ma è importante osservare che la science – fiction del secolo scorso è spesso diventata la realtà dei giorni nostri.

sabato 17 dicembre 2011

PARETI DEL CIELO, UN ANNO DOPO


La copertina di Pareti del cielo
L'ultimo numero della Rivista bimestrale del Club Alpino Italiano (novembre – dicembre 2011) propone ai lettori una nuova recensione di Pareti del cielo, il libro dell'alpinista bellunese Franco Miotto uscito nell'estate del 2010 e curato dal sottoscritto (casa editrice Nuovi Sentieri). La riproduco qui di seguito. Mi domando soltanto cosa ne penserà ora Erri De Luca del fatto che Franco Miotto gli avrebbe copiato, tale e quale, la storia dell'ultimo camoscio.
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Questo libro che ripercorre la carriera alpinistica, e non solo, di Franco Miotto esce a otto anni di distanza dalla prima biografia, pubblicata con il titolo La forza della natura, grazie alla penna di Luisa Mandrino che con grande sensibilità e capacità introspettiva ha saputo portare alla luce la forte personalità di un protagonista assai schivo e riservato della storia alpinistica delle Dolomiti Bellunesi, parte della quale descrisse, insieme a Pietro Sommavilla, nella Guida dei Monti del Sole.

Ora, con il sottotitolo Passioni, storie e ricordi di una vita libera, Miotto ripercorre il suo itinerario di vita, alla luce dell'approccio alla montagna che altri scrittori e alpinisti hanno delineato nella storia alpinistica delle Alpi Orientali, come giustamente ricorda Roberto De Martin nella sua prefazione, da Antonio Berti a Julius Kugy, Da Dino Buzzati a Piero Rossi. È in questo terreno ideale che si muove Miotto, quando partendo dal racconto delle sue imprese sulle grandi pareti selvagge del Burèl, dello Spiz di Lagunàz, del Pizzocco, del Col Nudo, imprese che nel 2001 gli valsero l'assegnazione del premio Pelmo d'Oro, rivolge un invito a scoprire nuovi spazi d'avventura su quelle montagne che rispecchiano perfettamente il suo carattere. Ma c'è di più, e alcuni passaggi mi fanno pensare alle testimonianze di autori quali Bepi Mazzotti e, ai giorni nostri, Erri De Luca, in quel richiamo costante alla ricerca di un rapporto con la natura che non deve rispondere alle nostre esigenze, bensì al contrario. Emblematico è il passaggio in cui ricorda un episodio che cambiò radicalmente la sua vita, trasformandolo da cacciatore e bracconiere di camosci in alpinista, passaggio che ricorda per alcuni aspetti Il peso della farfalla di De Luca, nell'immedesimazione del senso della morte del camoscio abbattuto attorno al quale si stringe attonito il branco, episodio che lo spingerà ad abbandonare definitivamente la caccia. Senso della morte che ricompare ancora più drammaticamente, quando durante una scalata viene raggiunto dalla notizia della morte in un incidente della giovane figlia. Ma anche qui Miotto fa rientrare l'episodio nel senso della circolarità della vita, quasi recuperando la forza di continuare dalla voglia di vivere della figlia scomparsa.

Un libro che non si ferma alla superficie di fatti e persone, ma che si addentra nei meandri della vita, così come Miotto ha esplorato gli anfratti più reconditi di quelle austere montagne.

venerdì 16 dicembre 2011

MISTERO SUL MONTE ARARAT

La copertina del nuovo fumetto
È uscito da pochi giorni nelle librerie Ararat, la montagna del mistero, nuova opera a fumetti del “folletto” Paolo Cossi. Propongo qui di seguito una mia recensione già pubblicata su Il Corriere delle Alpi nell'edizione di domenica 11 dicembre 2011.
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Si è tenuta venerdì scorso 25 novembre presso il ristorante Alla Stanga a Candàten di Sedico la presentazione in anteprima di Ararat, la montagna del mistero, il nuovo libro a fumetti disegnato da Paolo Cossi. La pubblicazione, che racconta in forma romanzata la storia del bellunese di origine armena Azad Vartanian, nel mese di dicembre verrà proposta al pubblico nel corso di altre due serate programmate rispettivamente a Sedico il giorno 16 ed a Mel il 18.

Non è la prima volta che Paolo Cossi, già piuttosto affermato nell'ambiente del fumetto italiano, si cimenta nelle sue strisce con la questione armena. La prima volta, come molti lettori ricorderanno, è stato nel 2007 con Medz yeghern, il grande male già dato alle stampe per iniziativa di Hazard Edizioni: in quell'occasione Cossi si è occupato del genocidio armeno avvenuto nell'ex impero ottomano nel corso della prima guerra mondiale, un argomento tuttora considerato tabù nell'odierna Turchia, ma relativamente poco trattato anche nei libri di storia di casa nostra.

Nonostante le difficoltà intrinseche nel racconto di questo capitolo storico così triste e violento, l'autore non si è lasciato scoraggiare dall'impresa ed ha invece raccontato nel modo seguente la sua tecnica narrativa: «In storie come questa di solito è necessario romanzare, drammatizzare, aggiungere all'intreccio episodi basati sulla fantasia. Nel mio caso è stato invece vero il contrario, ho dovuto togliere i dettagli storici più raccapriccianti, perché avrebbero potuto apparire incredibili».

Anche l'approccio ad Ararat, la montagna del mistero è in qualche modo simile. Il libro si concentra questa volta sul patrimonio di cultura, miti e tradizioni dei diversi popoli - armeni e curdi - che nel corso dei secoli hanno abitato le pendici di questa montagna considerata sacra da molte religioni. La vicenda, già nota al pubblico bellunese, è incentrata sulla riscoperta delle vestigia armene nella Turchia odierna e sulla ricerca dell'inafferrabile relitto dell'arca biblica. «La narrazione è piena di episodi che sembrano frutto di fantasia», ha raccontato Paolo Cossi nel corso della conferenza, «ma posso assicurare che è tutto vero. Attacchi di cani e belve feroci, resti di fosse comuni risalenti a quasi un secolo fa, ascensioni alpinistiche e calate a corda doppia dentro crepacci ghiacciati. Azad Vartanian ha veramente avuto a che fare con tutto questo».

Reduce da altri importanti lavori che negli ultimi tempi lo hanno tenuto impegnato (uno per tutti, la biografia a fumetti di Hugo Pratt), Cossi ha anche avuto modo di ironizzare sulla gestazione lunga di questo progetto, nato ormai qualche anno addietro e portato avanti a più riprese negli intervalli di tempo. «I lunghi pomeriggi trascorsi davanti allo storico caminetto della Stanga mi sono serviti da ispirazione nei momenti di difficoltà». Non è dunque un caso che proprio il ristorante bellunese faccia da apertura nella sceneggiatura del libro, con l'aggiunta anche di alcune comparse celebri e vecchie conoscenze di casa nel locale.

Non da ultimo, quest'opera a fumetti ben si inserisce nel filone “montano” dell'autore pordenonese, una vera e propria costante fin dai tempi ormai lontani di Corona, l'uomo del bosco di Erto. Completa il libro un bel documentario in DVD che offre al lettore alcuni filmati originali girati sui luoghi del racconto.

venerdì 9 dicembre 2011

CHI DOBBIAMO RINGRAZIARE


Qualche settimana fa, di fronte alla Caporetto della nostra economia, avevo concesso un benvenuto ai tecnici nella speranza che sapessero almeno adottare delle misure macroeconomiche per andare nella direzione giusta. Il disastro che ci hanno lasciato in eredità almeno vent'anni di politica dissennata resta incommensurabile e non si sa ancora oggi come ne usciremo, ma un po' di fiducia mi sembrava ben riposta.

Ebbene, mi sbagliavo. Il governo Monti ha in realtà ben poco di tecnico e viene retto dalle vecchie consorterie affaristico – parlamentari proprio come la corda sostiene l'impiccato, secondo una colorita ma efficace similitudine già adottata da altri commentatori.

L'ultima manovra finanziaria, l'ennesima di questo anno sciagurato, si commenta da sola: presenta il conto della crisi finanziaria sempre alle medesime persone (dipendenti, pensionati, famiglie, consumatori) mentre attribuisce nuovi condoni e garanzie alle categorie tradizionalmente privilegiate: evasori, clero, parlamentari ed alti papaveri in genere.

Nessuno degli attuali finanziatori della manovra può essere tecnicamente ritenuto responsabile del disastro finanziario che ci troviamo in eredità. Di chi è invece la colpa? Qualche giorno fa un articolo su Affari & Finanza, settimanale economico di Repubblica, faceva quattro conti molto semplici per spiegare chi dobbiamo ringraziare. Ne riporto qui di seguito un breve estratto.
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Che cosa resterà di Silvio Berlusconi? Qual è l'eredità che i suoi governi lasciano nei conti dello Stato e nell'economia italiana? Al di là dei giudizi di parte, sia negativi che positivi, che per lungo tempo (ora un po' meno) hanno diviso l'opinione pubblica, i suoi esecutivi possono essere valutati anche in termini puramente numerici. E si sa, almeno la matematica non è un'opinione. Il numero più importante da tenere in mente è 546. Miliardi di euro. Ovvero l'incremento del debito pubblico causato dagli esecutivi del Cavaliere. Questo numero si ottiene come differenza tra il livello del debito pubblico alla fine e all'inizio di ciascuno dei quattro governi di Berlusconi. Si tratta di quasi un terzo, esattamente il 28,7 per cento, di tutto il debito pubblico italiano.


Tenuto conto che la durata complessiva degli esecutivi di Berlusconi (9 anni) rappresenta solo il 14,2% della storia dell'Italia repubblicana (63,5 anni), se ne deduce che il Cavaliere ha accumulato debito ad una velocità doppia rispetto alla media degli altri governi repubblicani.


Di conseguenza, i vari governi targati centrodestra sono costati all'Italia, in termini di incremento del debito pubblico, 60 miliardi di euro all'anno, ossia 1000 euro per ogni cittadino italiano. Quindi la permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi per 9 anni ci ha lasciato un conto da pagare di 9mila euro a persona, ovvero, per una famiglia tipo di 4 persone, di 36mila euro, cifra da ripagare con futuri tagli della spesa e dei servizi pubblici, e un incremento delle imposte. […]

[Articolo tratto da Affari & Finanza, Repubblica, del 28 novembre 2011, titolo originale Il maxi – debito di Berlusconi, autori Adriano Bonafede e Massimiliano Di Pace]

giovedì 8 dicembre 2011

L'ALTRO GESTORE (BOZEN, 1915)

Comunicazione di servizio: a partire da oggi giovedì 8 dicembre 2011 il Blog di Marco Conte trasloca definitivamente su questo nuovo recapito http://ultimoponte.blogspot.com/, nei prossimi giorni raggiungibile anche col normale indirizzo alias http://www.marcoconte.eu/.

La vecchia pagina Splinder resterà consultabile fino alla dismissione del servizio prevista per fine gennaio 2012, ma non verrà più aggiornata. I vecchi contenuti del blog dal 2006, almeno quelli meritevoli, verranno periodicamente riproposti in un'apposita rubrica, che ho voluto chiamare In soffitta.

Comincio con questo breve racconto del 2008 dove si parla di rifugi alpini, gestori e scomode montagne.
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È dura l'esistenza del gestore di un rifugio alpino. È un grande, oneroso impegno per te e la tua famiglia quando, dai primi di giugno fino alle soglie dell'autunno, la tua abitazione si trasferisce in alta quota e comincia l'alpeggio dei turisti sempre pronti a pretendere, degli alpinisti rompiballe e dei villeggianti in cerca di aria buona. È oltremodo faticosa quando ogni mattina, dopo un calcio alla sveglia sulle 4.30 e il primo tè al limone preparato per i climber che si alzano con le galline, agguanti ancora assonnato la moto da trial e ti precipiti a fondovalle: al parcheggio ti attende il tuo furgone pick-up, mentre nella lontana Valbelluna sta per iniziare una lunga giornata di lavoro davanti ad un monitor ed in compagnia della cornetta di un telefono.

Alla sera ricomincia tutto in senso opposto: qualche rifornimento di vettovaglie in negozio sulla strada per il ritorno e poi via, sali di nuovo in alta quota per un'altra notte al cospetto dei Monti Pallidi. Ci sono mattinate eterne in cui avresti quasi voglia di appoggiare la testa allo schermo del computer e di schiacciare un pisolo, ma a riportarti tra i vivi ci pensa uno squillo del cellulare. Sono un paio di scalatori rimasti bloccati sulla grande parete d'argento: non riescono più a trovare l'uscita della via, ed hanno pensato bene di chiederti un consiglio per togliersi dai fastidi. E così ritieni opportuno fornire loro quattro indicazioni a memoria su quale direzione prendere, in che fessure avventurarsi, su quali chiodi fare affidamento. Infine, come se niente fosse, riprendi a pianificare la spedizione aerea del giorno diretta in Australia.

Un fisico solo bestiale non sarebbe sufficiente. Tutti i giorni per  quattro mesi, anno dopo anno, con qualsiasi condizione meteorologica. E intanto il tempo passa. Ti ricordi una volta quando eri ancora bambino, ma insieme a tuo fratello stavate già in montagna perché tuo padre era già gestore prima di te: un rifugio alpino è come un piccolo regno e l'onere di dirigerlo passa di generazione in generazione nella stessa famiglia, un po' come il costume dell'Uomo Mascherato. I ghiaioni ai piedi della grande parete erano il vostro parco giochi e quella volta, spostando qualche sasso, avevate riportato alla luce una strana scatoletta metallica piena di ruggine con una scritta ancora nitida: "Bozen, 1915".

Ricordi cosa era avvenuto in seguito? Un rapido esame del contenuto aveva rivelato l'origine del reperto: si trattava di derrate alimentari delle truppe austriache risalenti quasi a mezzo secolo prima, ed imprigionate per lungo tempo nel frigorifero naturale dei detriti di dolomia. La carne in scatola, perché di questo si trattava, era ora frollata al punto giusto. Non erano ancora arrivati gli anni dell'abbondanza e del consumismo, ed insieme a tuo fratello prendesti una decisione apparentemente saggia: un simile tesoro non poteva andare sprecato e ve la divideste dunque con equità, mezza scatola a testa. Il mal di pancia vi costrinse a letto per una settimana, ma alla mamma non raccontaste nulla e scongiuraste così almeno una sonora dose di scapaccioni.

Al giorno d'oggi i tempi sono cambiati, e la guerra appare sempre più lontana. Ogni tanto tuttavia capita ancora, nei fine settimana più affollati di turisti, che qualcuno chiami in rifugio per segnalarti qualcosa che non funziona. Proprio come oggi: squilla il telefono, tu rispondi, chiedono se puoi prenderti un paio d'ore per andare a controllare su quel sentiero in alto sotto la parete, dove sotto un mucchio di sassi un escursionista ha rinvenuto i resti di un ordigno bellico. Miseriaccia... proprio oggi con tutta questa gente doveva succedere? Percorri i ripidi tornanti del sentiero, e alla fine la bomba è proprio lì: un bel dispositivo inesploso risalente alla grande guerra, ancora in grado di recare danno a cose e persone. Che fare, come rimediare?

Conosci bene gli artificieri, sono già venuti altre volte a risolvere altri problemi come questo: se devi tornare quassù una seconda volta per accompagnarli, quelli sono sicuramente capaci di portarti via una giornata intera. Di colpo ti viene l'ispirazione: estrai l'ordigno con mille cautele dal ghiaione, lo infili nello zaino in mezzo alle magliette di ricambio e scendi tranquillo in rifugio. Salti in moto cercando di assumere un'aria innocua e ti porti a valle cercando di non dare troppi scossoni al bagaglio che hai sulle spalle: non si sa mai, se la spoletta decide di sgranchirsi le giunture, stavolta potrebbe anche finire male...

Alcuni giorni più tardi, in un posto più comodo ed appartato alla presenza delle forze dell'ordine, ha luogo la deflagrazione d'ordinanza. Agli amici in ufficio racconterai che la bomba, una volta fatta brillare, ha lasciato nel terreno un buco grande come un tavolo. E i colleghi, rimasti allibiti e senza parole, potranno solo pensare che non sei esattamente un gestore fuori dal comune: sei proprio fuori di testa.

[Limana, 23 maggio 2008]

sabato 3 dicembre 2011

RICORDANDO MARIO

Un anno fa moriva Mario Crespan. In suo ricordo riporto qui di seguito una recensione del libro Ritorni a valle (Luca Visentini Editore, 2011), pubblicata su Il Corriere delle Alpi il 29 novembre 2011.
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Montanaro ed artista, atleta eclettico e viaggiatore incallito, alpinista ed intellettuale controcorrente: Mario Crespan è stato tutte queste cose insieme, nonostante fosse soprattutto noto per la sua abilità di illustratore su un gran numero di pubblicazioni di montagna. Ad un anno dalla sua scomparsa (Mario è mancato il giorno 11 novembre 2010 a causa di una malattia incurabile), un bel libro curato dall'amico editore Luca Visentini ci ripropone oggi i percorsi montani ed il punto di vista di Mario Crespan in veste di scrittore: «una serie di scritti a cavallo tra riflessione e racconto» intitolata Ritorni a valle come l'omonima rubrica tenuta per alcuni anni dall'autore sulla rivista telematica Intraisass.

Il Mario Crespan che ritroviamo tra le pagine di questo libro è davvero una personalità abituata a procedere «in direzione ostinata e contraria», come da sua spontanea citazione del cantautore Fabrizio De André. È il titolo stesso a rappresentare un elemento rivelatore: un alpinista di primo piano si sarebbe di certo soffermato sulle salite più impegnative e sui gradi più repulsivi, mentre in questo caso l'autore sceglie appunto di privilegiare il rientro a casa, che soltanto in apparenza è il momento più trascurabile della sua impresa. «È proprio il ritorno a valle dopo l'ascensione che opera un fulmineo montaggio dell'esperienza alpinistica appena vissuta», spiega Crespan nella nota introduttiva, «la razionalizza, ne circoscrive i significati e crea riserve di memoria fertile per i giorni a venire».

Mario aveva grande familiarità con similitudini e metafore, forse anche in virtù della sua convinzione che in ogni atto umano o tradizione popolare anche banali vi fosse un preciso significato che suscitava la sua curiosità. Ricordo come fosse ieri il nostro primo incontro, avvenuto nel 2003 a margine del premio Pelmo d'Oro per la cultura alpina appena conferito alla coppia Crespan - Visentini. «È sempre il vecchio problema dei ricci che devono passare l'inverno», spiegò in quell'occasione il Nostro a proposito delle problematiche del turismo in montagna: «Troppo vicini rischiano di trafiggersi, eccessivamente lontani finiscono invece per morire di freddo. Occorre trovare un asse di equilibrio che consenta di preservare la wilderness e nello stesso tempo praticare un turismo più rispettoso».

Ritorni a valle, da questo punto di vista, è pieno di simili riferimenti. I tortuosi sentieri nel bosco diventano ad esempio «terreno di scomodi ripiegamenti interiori» nell'attesa del cielo e della luce, simboli «di punti cardinali ed orientamento ritrovato». Perfino la prassi montanara della pulizia dei sentieri diventa spunto per una riflessione: «Un altro insegnamento che proviene da molto lontano nel tempo», lo definisce Mario osservando un compagno mentre sgombra alcuni ostacoli da un viottolo, «un sommesso invito a contribuire al bene comune, un'ascendenza di atavica saggezza giunta fin qui attraverso l'amico, ultimo frazionista di una lunga corsa di staffetta».

Non c'è soltanto la montagna in questa collezione di articoli di Mario Crespan. Ritorni a valle contiene naturalmente tutte le grandi passioni dell'autore come lo sci da fondo, la storia dell'arte, le due ruote motorizzate oppure a pedali. Senza dimenticare infine l'avventura del viaggio, che nel caso di Mario assume il preciso significato di una ricerca anche interiore. Elenco di seguito soltanto alcuni riscontri significativi: l'ascensione in Provenza sulla Montagne Sainte-Victoire sulle tracce del pittore Paul Cézanne; il pellegrinaggio sui luoghi di vita (e di morte) di Vincent Van Gogh; la vertiginosa traversata delle arcate del Pont du Gard nei pressi di Nîmes, improvvisata un bel giorno per meglio comprendere il rapporto dei nostri antenati con il vuoto e la vertigine.

A Mario Crespan scottava forse la terra sotto i piedi? Forse un poco sì: il temperamento del giramondo era parte di lui ed egli lo percepiva in modo chiaro. Lo si capisce senza ombra di dubbio quando si sofferma a descrivere la quiete di certi paesini alpini, che possono vantare atmosfere più domestiche e rassicuranti di molti spazi urbani: «Sento aleggiare accanto a me il soffio ancora intenso di eventi che ho udito più volte narrare, ed ai quali continuo a riconoscermi estraneo. Dalle finestre del mio studio gli occhi si fissano sulle montagne che mi parlano all'orizzonte di settentrione. E di nuovo mi assale la nostalgia di una casa che non potrò mai possedere». Chissà, forse in altri tempi ed in altri luoghi un altro romanziere ha già espresso pensieri simili. E li ha intitolati Il Richiamo della Foresta.