giovedì 18 marzo 2021

RESISTERE

In tempi di pandemia come quelli che stiamo vivendo si insiste spesso sulla necessità di tener duro in attesa di tempi migliori, quando un auspicato miglioramento della situazione sanitaria ci permetterà di essere più liberi e forse più ottimisti. Sarà vero? Si vedrà. Le associazioni di idee sono però strambe ed indisciplinate, e a me per esempio in casi come questo vengono spesso in mente episodi del passato che coinvolgono amici e vecchie conoscenze: qualcuno nel frattempo perso di vista per le vicende della vita, altri semplicemente andati avanti ed ormai presenti soltanto nei bei ricordi.
Questo aneddoto forse semplice e scontato mi ispira però sempre molta allegria. Anno 2007, stagione ormai avanzata sul finire dell’autunno con le prime nebbie e gelate mattutine. Il non più giovane amico Franco, già alpinista di razza che da qualche anno si dedicava alla rievocazione delle passate scorribande mediante spettacoli di diaporama molto seguiti dal pubblico, era stato invitato in terra emiliana per una proiezione. Decidemmo insieme che si sarebbe trattato di una gita di due giorni, e che l’avremmo accompagnato io con Adriano.
Tutto il viaggio di andata e ritorno fu l'occasione per un numero imprecisato di avventure ed episodi bislacchi, per fortuna tutti terminati a lieto fine. Dalle parti della bassa Lombardia rischiammo per esempio una rissa con alcuni teppistelli fascisti, messi tuttavia prontamente in fuga dalla possanza fisica e dall’intraprendenza tutta ertana messa in campo dal buon Adriano. Sulla strada del ritorno ci fermammo poi presso un luogo per noi assai caro e coinvolgente: la casa - museo della famiglia Cervi a Gattatico, dove per qualcuno del gruppo la commozione risultò talmente forte che ci scappò anche una lacrima galeotta.
Prima di ritornare in terra dolomitica a missione compiuta, nessuno di noi intendeva tuttavia rinunciare ad un veloce passaggio dalle parti di Canossa, dove ci era stato raccomandato un ottimo caseificio presso il quale avremmo potuto effettuare qualche acquisto di generi alimentari. Domenica mattina sul far del giorno eravamo dunque pronti per la colazione al bar, in attesa dell'orario di apertura dei negozi, mentre all'esterno la temperatura minima cominciava a portarsi verso medie pressoché invernali. Si aggirava nelle immediate vicinanze anche un gruppo di attempate signore del luogo, tutte bardate oltre il necessario con cappotti e piumini e tutte ammirate dalla tenuta ancora quasi estiva di Adriano, il quale è abituato a girare in maniche corte per buona parte dell'anno.
«Scusi, ma lei non ha freddo?», azzardò ad un certo punto una componente della comitiva femminile all'indirizzo del nostro, guardandolo sbalordita dal basso verso l'alto. Adriano a questo punto rivolse lo sguardo in direzione dei propri piedi, poiché in termini di altezza sovrastava la sua interlocutrice di un buon metro: «Certo che sì, Signora», fu la sua tonante risposta, «Ma resisto!»

martedì 9 marzo 2021

PRIMULE


Giornate floreali, fredde e solitarie, queste di inizio marzo. Arriva il fine settimana, e come accade da circa sei mesi a questa parte scelgo apposta sentieri pressoché sconosciuti dalla massa con il preciso scopo di incontrare meno gente possibile. Nel frattempo mi godo la parte iniziale della primavera, quella fuggevole parte dell'anno che a tratti si confonde ancora con l'inverno: il periodo che preferisco. Dal sottobosco ancora grigio e secco fanno la loro improvvisa comparsa anemoni, campanule, bucaneve, i primi cornioli gialli e naturalmente le primule.
Primule che tempo fa qualcuno aveva frettolosamente proposto come simbolo di rinascita dopo la pandemia. Una trovata pubblicitaria alquanto ingannevole: sono sempre più convinto che dovremo ormai attendere molte fioriture di primule prima di assistere ad una parvenza di rinascita o normalità. Sempre che il fatto di ritornare alla normalità sia di per sé qualcosa di desiderabile, certo. Sorvoliamo. Da un sacco di tempo frequento sempre gli stessi posti vicino a casa nelle mie uscite domenicali, causa motivi di forza maggiore. L'esplorare e l'osservare cedono gradualmente il passo al riflettere, e mi viene sempre più spontaneo un esercizio che tempo addietro mi ero proposto come compito saltuario: provare ad indagare sul significato e sulle ragioni che mi spingono ad indossare zaino e scarponi e ad andarmene, anche da solo, per contrade abbandonate.
Mi è successo anche ieri pomeriggio mentre camminavo nel bosco, quando attraversando qua e là le ultime macchie di neve che ancora resistono nei punti d'ombra ho espresso in silenzio un paio di considerazioni. Nei tempi oscuri che stiamo vivendo (io li identifico come un medioevo 2.0, e sulle ragioni di questa convinzione tornerò magari in separata sede) perfino un semplice viandante deve fare di necessità virtù: diventare più autonomo, nel senso di imparare a fare affidamento sulle proprie forze ed i propri mezzi; se non proprio una via di uscita, sforzarsi almeno di immaginare una possibile direzione verso la quale muovere i propri passi.
Sono propositi che possono servire anche per la vita quotidiana, sebbene magari non risolvano nulla di pratico. Ma quando il gioco si fa duro, spesso sono proprio i visionari che scoprono qualche sentiero nuovo, ed intuiscono cosa ci potrebbe riservare il futuro.
Poi, non servirebbe nemmeno dirlo, se il servizio sanitario nazionale decidesse una buona volta di darmi un appuntamento per una salutare iniezione di fiducia nella chiappa destra (ma anche la sinistra  è disponibile, con entusiasmo), si guarderebbe all'avvenire con tutt'altro atteggiamento.


venerdì 13 dicembre 2019

UNA FUSIONE ANNUNCIATA

Una ricerca del CNR certifica a suon di dati e recenti misurazioni che anche il ghiacciaio della Marmolada, entro pochi decenni, cesserà di esistere. «In soli 10 anni il ghiacciaio della Marmolada, montagna iconica delle Dolomiti, ha ridotto il suo volume del 30%, mentre la diminuzione areale è stata del 22%», si scrive nell'articolo della rivista Le Scienze linkato qui sotto. La parte peggiore della faccenda non viene raccontata in modo esplicito, ma in pratica suonerebbe più o meno così: nulla si può ormai fare per evitarlo. La catena di cause ed eventi è all'opera da un sacco di tempo, ed i tempi lunghi dei cambiamenti climatici fanno sì che, anche se per assurdo si potesse invertire il processo degenerativo nel giro di un giorno, la tragedia andrebbe comunque avanti fino alla sua inevitabile conclusione.


Per quanti frequentano le montagne sopra una certa quota e ritornano nei medesimi luoghi a distanza di anni e decenni, si tratta di un segreto di Pulcinella. Altre cime Dolomitiche paragonabili alla Marmolada ospitano piccoli ghiacciai meno evidenti che stanno seguendo la stessa sorte: Antelao, Pelmo e Civetta rappresentano solo alcuni fra gli esempi più rilevanti. Il caso per me più impressionante rimane quello della Fradusta sull'altopiano delle Pale di San Martino, raggiungibile anche per un escursionista di medio / bassa portata come il sottoscritto e di cui pubblico due malinconici scatti risalenti all'estate 2015: in entrambe le immagini ben si comprende come la massa glaciale, che un tempo avvolgeva completamente l'omonima e soprastante Cima della Fradusta, sia ormai sulla buona strada per ridursi ad una sorta di pozzanghera. Residui di ghiaccio "sporco" potranno forse attardarsi qualche tempo sotto i ghiaioni che fungono da isolante, ma la loro sorte è comunque segnata.
Non si tratta di spirito nostalgico o questioni estetico - paesaggistiche. I ghiacciai alpini di cui certifichiamo il requiem rappresentano la nostra principale fonte di acqua potabile. In un futuro non troppo lontano l'acqua da bere che ci arriva direttamente in casa diventerà un bene scarso, disponibile solo in alcuni periodi dell'anno e di sicuro molto, molto caro. Per grande gioia e profitto delle multinazionali dell'acqua in bottiglia.

venerdì 27 settembre 2019

LA SERA CHE CHIAMAI FRANCO

Giugno 2010, sugli scaffali delle librerie fa la sua comparsa Pareti del Cielo, senza timore di smentite uno dei libri più contestati nella storia dell'alpinismo italiano. Limitandomi a quanti non hanno ricorso alla querela, i commentatori più moderati hanno scritto soltanto che era un «libro inutile» e lo hanno paragonato alla barzelletta dell'automobilista impazzito che corre contromano sull'autostrada. La prefazione del libro era mia, e la ripropongo stasera a quasi dieci anni di distanza come testimonianza di rinnovata amicizia verso l'autore e protagonista. In direzione ostinata e contraria è sempre stata un'espressione che ben si adatta all'esperienza di vita del grande Franco Miotto.

La Primula Rossa della Schiara era ed è tuttora famosa per il suo carattere talvolta schivo ed allergico al chiasso della folla, senza ombra di dubbio sincero ma anche brusco e sanguigno. Non è persona da mezze misure o gradazioni di grigio: con lui è possibile soltanto un’intesa istintiva oppure, nel peggiore dei casi, una contrapposizione radicale e profonda. Oggi mi sembra incredibile a ripensarci, ma la prima volta che sollevai la cornetta del telefono per disturbarlo nella sua quiete domestica mi ritrovai veramente a meno di un passo dalla seconda delle eventualità di cui sopra.
Correva l'anno 2002 e la scrittrice Luisa Mandrino aveva appena dato alle stampe il fortunato libro La forza della natura, un’appassionata biografia di Franco che sarebbe stata presentata entro pochi giorni in anteprima al festival bellunese Oltre le Vette. Ritenevo utile scambiare due parole con il Nostro in vista di un possibile articolo di presentazione su un quotidiano locale, ma fui costretto a fare i conti con la ruvida reazione di Franco. Appena intuito che il mio mestiere era quello del collaboratore giornalistico si trattenne a stento dal mandarmi a Quel Paese per la via più breve, ma fu così bravo da riuscire a salvare la forma mantenendo intatta la sostanza del discorso: «No, guardi, lasciamo perdere. Sarebbe una storia troppo lunga da raccontare, e non mi sembra il caso di farlo in pochi minuti qui al telefono».
Fu la prima e l'ultima volta, ancora oggigiorno me ne stupisco, che ci rivolgemmo l'uno all'altro dandoci del Lei. L'articolo uscì in stampa, Franco lo lesse e con ogni probabilità non lo ritenne scritto male. Mi recai a salutarlo alla presentazione del volume ed un paio di settimane più tardi mi chiamò improvvisamente al telefono cellulare mentre mi trovavo ancora fuori casa: «Sono Franco Miotto, mi farebbe piacere ospitarti a casa mia per un bicchiere di vino, uno di questi giorni».
Fu la fine. Oppure, se vogliamo, un grande ed entusiasmante inizio: una quantità strabiliante di bottiglie di vino, e mi riferisco in particolare al forte Tocai friulano che fa la parte del leone nella sua cantina, sono state prosciugate da quel giorno di otto anni fa. Tuttavia ancora oggi Franco, nelle frequenti occasioni in cui si abbandona alla marea dei ricordi, spesso non trascura di cospargersi il capo di cenere: «Quella volta al telefono non sono stato proprio il massimo della cortesia, mi dispiace un sacco».
Siamo compaesani da diversi anni, ma fino ad un certo punto della mia vita il nome di Franco Miotto ha rappresentato “soltanto” un nome inciso sulla pietra nel pantheon dell’alpinismo italiano, un riferimento sfuggente che spesso ricorreva in materia di montagna bellunese quando si voleva indicare qualcosa di irripetibile o comunque non facilmente imitabile da parte dei comuni arrampicatori ed escursionisti domenicali. In seguito, ribadisco, gli avvenimenti hanno preso una strana piega. Normalmente la conoscenza diretta riduce le distanze tra le persone, e le induce col passar del tempo a valutazioni reciproche basate su fatti oggettivi. Anche frequentando Franco è andata in parte in questo modo, ma soltanto fino ad un certo punto: l’Uomo dei Viàz anche dopo molti anni possiede infatti l’indubbia abilità di stupire quanti gli stanno intorno.
Franco è capace di impiegare giorni interi per studiare un dilemma che gli sta a cuore, analizzarlo da ogni prospettiva possibile, escogitare una soluzione semplice e complessa nello stesso tempo (magari l’uovo di colombo, al quale in precedenza nessuno aveva mai pensato) ed infine applicarla in modo perfino elegante da un punto di visto estetico. Non mi riferisco beninteso soltanto a problemi di carattere alpinistico, bensì anche a faccende che riguardano la vita quotidiana: la cura delle api e degli alveari; l’intarsio in legno del volto di Ernesto “Che” Guevara con il bianco riflesso dell’occhio che nel corso della lavorazione lo ha fatto impegnare con particolare puntiglio; il rimedio al flagello delle talpe, che ogni anno con la bella stagione tentano di devastargli il tappeto erboso del giardino a cui tiene moltissimo.
In questo volume pubblicato da Nuovi Sentieri ho cercato di intervenire con i piedi leggeri, sforzandomi al massimo per fare emergere dall’intreccio della storia soprattutto Franco con la sua grinta generosa ed imprevedibile. Sono grato all’editore Bepi Pellegrinon per averci permesso con pazienza di portare a termine questo progetto, ma ringrazio soprattutto lo stesso Franco Miotto, che a un dilettante sprovveduto della montagna come il sottoscritto ha rivelato il fascino pauroso e selvaggio delle Dolomiti Bellunesi. Rivolgo infine un doveroso omaggio al ricordo di Benito Saviane, scomparso nel febbraio 2010 dopo una breve ma dolorosa malattia.

giovedì 11 luglio 2019

IL DILEMMA DEL RICCIO

Le alte temperature imperversano, e credo pochi di voi abbiano un'idea anche approssimativa di quanto sforzo comporti alzare una penna per mettersi a scrivere. Si avvicinano anche le ferie, e nelle prossime settimane il blog continuerà ad essere aggiornato con qualche contenuto d'archivio che non mi farà di certo imperlare la fronte di sudore. Quello, come sempre, lo riservo di buongrado ai sentieri. La via prosegue senza fine.
Si comincia con questa intervista d'annata a Luca Visentini e Mario Crespan, rilasciata all'inizio del mese di agosto del 2003 durante la premiazione del Pelmo d'Oro a loro assegnato nella sezione della cultura alpina, e pubblicata sul Corriere delle Alpi di Belluno nei giorni successivi. I contenuti mi sembrano ancora piuttosto attuali. Oltre a provare un po' di nostalgia per quei giorni, mi viene spontaneo il seguente sottotitolo: "quando il passato era ancora futuro". Un caro saluto a Luca e un commosso ricordo per Mario, scomparso ormai da qualche anno.
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BELLUNO. Un approccio alla montagna ed all'alpinismo che sia il più possibile rispettoso e "pulito", non inteso come semplice nostalgia del tempo passato bensì aperto all'esigenza di preservare l'integrità dell'ambiente montano e la fisionomia originale dei profili delle vette. A margine della recentissima consegna del premio Pelmo d'Oro, che ha visto la loro affermazione nella sezione dedicata alla cultura, Luca Visentini e Mario Crespan delineano i tratti fondamentali del pensiero che da diversi anni a questa parte ne orienta i passi nella loro opera di divulgazione editoriale, letteraria ed artistica della montagna veneta. «È importante che chi frequenta la montagna per scopi escursionistici, alpinistici o semplicemente turistici lo faccia in modo leale,» esordisce Luca Visentini, «semplicemente perché non vogliamo che le montagne vengano rovinate o sconvolte nella loro morfologia». Editore e scrittore di montagna con all'attivo numerose guide alpinistiche il primo, disegnatore e grafico professionista il secondo, Visentini e Crespan hanno avviato da alcuni anni a questa parte una proficua collaborazione che ha dato luogo a pregevoli pubblicazioni dedicate a diversi gruppi montuosi dell'area dolomitica.
Prendendo spunto dalla motivazione della giuria del Pelmo d'Oro, che si è soffermata sulla vostra attività di invito alla montagna, quale significato sottintende al giorno d'oggi parlare di cultura di montagna? «Pubblicando testi di altri autori, oppure scrivendo in prima persona, amo privilegiare un determinato modo di intendere l'alpinismo», spiega Luca Visentini: «Un modo di procedere "pulito" a mio parere è indispensabile per una corretta cultura della montagna. Dico questo perché sempre di più va invece diffondendosi un utilizzo "sporco" dell'ambiente alpino fatto di spit, vie ferrate, funivie ed altri mezzi artificiali. In particolare gli spit, oltre ad essere inquinanti, possono essere definiti come un trucco utilizzato dalla maggioranza per elevare a dismisura le difficoltà, allontanandosi tuttavia sempre di più dalla dimensione dell'avventura che è una componente fondamentale dell'alpinismo. Ci troviamo in un periodo di "onda bassa" provocato dalla diffusione dell'artificiale, ed è dunque importante non perdere la memoria dei percorsi più tradizionali per un futuro in cui la gente avrà nuovamente bisogno di un approccio più naturale all'ambiente che la circonda».
Si tratta dunque di porre rimedio ai danni che la mentalità consumistica ha provocato anche in montagna? «Perfino lo stesso concetto di sicurezza concorre talvolta a sviare escursionisti ed alpinisti da un corretto rapporto con l'ambiente», prosegue Mario Crespan sulla stessa linea dell'amico e collega Visentini: «Al giorno d'oggi possiamo riscontrare addirittura una sovrabbondanza di mezzi di protezione che includono il telefonino, l'elicottero e tutta una serie di macchinari che possono arrivare sempre più in alto. Il risultato di questo atteggiamento consumistico trasportato in alta quota è che la gente non è più preparata fisicamente o mentalmente alla fatica, e sebbene si illuda di essere al sicuro poiché in possesso di un telefono cellulare, in pratica si rivela estremamente fragile. Un'altra conseguenza di tutto ciò è che la montagna finisce inevitabilmente per essere sempre meno frequentata, soprattutto nei luoghi più isolati dove occorre camminare molto per arrivare alla base delle pareti».
Sempre a proposito di abbandono della montagna, è proprio impossibile trovare una via di mezzo che permetta di evitare sia il saccheggio dell'ambiente, sia lo spopolamento dei borghi alpini e dei pascoli? «È certamente difficile trovare un punto di equilibrio», sottolinea ancora Visentini, «poiché oggi è di moda un turismo che assomiglia molto alla TV spazzatura. Bisogna tuttavia rendersi conto che molto della situazione attuale dipende dall'offerta. I turisti che frequentano la montagna sono in un certo senso obbligati a seguire certi modelli di comportamento perché non hanno alternative, perché l'offerta sul mercato è quella che è. Ma come si possono valutare i gusti dei consumatori in assenza di una opzione valida? Le mode tuttavia passano, e presto verrà il tempo in cui le persone avranno bisogno di un rapporto meno artificiale con l'habitat d'alta quota». «È sempre il vecchio problema dei ricci che devono passare l'inverno», aggiunge Crespan: «Troppo vicini rischiano di trafiggersi, eccessivamente lontani finiscono invece per morire di freddo. Occorre trovare un'asse di equilibrio che consenta di volta in volta di stabilire dove fermare lo sviluppo alberghiero, in quali luoghi permettere la costruzione di rifugi e bivacchi e dove addirittura rimuoverli perché eccessivamente concentrati. È importante preservare la wilderness e nello stesso tempo ammettere un turismo più rispettoso. Ma per far questo è indispensabile allontanarsi da un modello di società dei consumi che ci propone tutto confezionato ed a scatola chiusa: perfino luoghi di formazione come la scuola o istituzioni culturali come i musei sembrano attualmente adottare sempre di più questa mentalità. Ci avete mai fatto caso? Durante le visite a mostre e cattedrali non è più possibile deviare dal percorso prefissato».
Cosa ci raccontate infine dei vostri prossimi progetti editoriali? «Solo per rimanere nell'ambito delle Dolomiti, in qualità di autori stiamo curando le parti finali di una pubblicazione sulle Pale di San Martino che uscirà tra un anno circa», conclude Luca Visentini: «Come casa editrice daremo invece presto alle stampe una guida sulle Pale di San Lucano opera dell'alpinista Ettore De Biasio, un libro di scalate nel Parco delle Dolomiti Friulane, ed infine un testo su Schiara e Tamer scritto dal bellunese Giampaolo Sani».

venerdì 5 luglio 2019

E BIRRA SIA

Ho dato inizio qualche mese addietro ad un filone di articoli intitolato Arriviamo tardi prendendo spunto ancora una volta da un luogo comune: la montagna come sinonimo di provincialismo, sofferente cronica di arretratezza e chiusura congenita nei confronti delle novità, roccaforte del bel tempo che fu con tutte le conseguenze positive e negative che questo ruolo comporta. Molte volte non si può negare una certa dose di attendibilità a questo modo di dire in origine assai semplicistico. In altri casi mi piace invece pensare che noi montanari stiamo talmente indietro in termini di mode, tendenze ed innovazione, se vogliamo prendere ancora per buona la tradizione della dimensione circolare del tempo, che rischiamo addirittura di trovarci in anticipo sul giro successivo come un orologio rotto o un atleta con le ruote sgonfie. Forse l'argomento che tratto di seguito, pur nella sua evidente leggerezza favorita dalla temperatura sopra le righe, rientra a buon titolo in questo paradigma come chiaro esempio di persistenza del passato nel tempo presente. E come ripetono i miei amici di Cavaso del Tomba, nur ein Schwein trinkt allein...

Esplode l'estate in tutto il suo potenziale termico e l'escursionista, tanto alla basse quanto alle alte quote, inevitabilmente entra in stato di sofferenza. Mi sembra dunque doveroso spendere un po' di tempo ed impegno sull'argomento birra, che senza tema di smentite può essere riconosciuta come la bevanda preferita dai camminatori di ogni età. Birra e montagna vanno a braccetto non soltanto perché chi frequenta le terre alta mostra di apprezzarla assai, ma soprattutto in quanto la birra è per ragioni storiche un prodotto delle vallate alpine, quasi sempre in abbinamento ad ingredienti, tecniche ed attrezzature fortemente legate ai luoghi d'origine. Dolomiti bellunesi e Pedemontana veneta rappresentano un caso esemplare di questa vera e propria simbiosi, tanto che i nostri territori hanno anche dato i natali nel corso degli anni a diverse associazioni impegnate a divulgare cultura e pratica della birrificazione casalinga. Se non è infatti accertato dal punto di vista scientifico che chi beve birra campa cent'anni, fuori da ogni ragionevole dubbio appare invece ormai la tesi che vorrebbe il produttore di birra per autoconsumo risentire così bene della natura genuina della propria creatura da arrivare in scioltezza fino al traguardo dei centoventi anni senza nemmeno un acciacco.
Scherzi a parte, avrebbe forse potuto uno come il sottoscritto prendere sotto gamba una simile sfida? No di sicuro: com'è universalmente noto, oltre ad apprezzare il prodotto finito possiedo un'innata curiosità nei confronti di ciò che al giorno d'oggi viene definito know how. Oltre al Cosa, per dirla con parole povere sono attirato anche dal Come. Certo non si è trattato di un'avventura facile: le primissime brodaglie zuccherose ed insipide, con la consistenza della polenta molle, non rappresentavano proprio un esordio incoraggiante: servì diverso tempo per prendere la dovuta confidenza con fermentatori, lieviti, procedure di sterilizzazione ed altre diavolerie.
Soltanto con molte prove ed errori imparai un trucco che si rivelò determinante per non essere travolto da quantità spropositate di pentoloni sporchi ed appiccicosi dai residui di malto: approfittare dei numerosi tempi morti per portarsi avanti col lavaggio dell'attrezzatura, prima e dopo l'uso. Altre soddisfazioni vennero in seguito: il primo fermentatore da cinquanta litri, le potenzialità offerte dal lievito liquido, la magia della macinatura del malto alla vigilia della cotta, l'efficacia insostituibile di una serpentina in rame per raffreddare nel più breve tempo possibile la pozione luppolata al termine della bollitura. Il momento culminante della mia breve carriera di birraio dilettante fu senza dubbio la scoperta di quella che per qualche anno ritenni la mia ricetta preferita: una bitter di colore rosso intenso in stile britannico, dolceamara al punto giusto e con una schiuma da favola: ho finito le ultime bottiglie del prezioso reperto un sacco di anni addietro, ed ancora oggi le rimpiango.
Inutile ad ogni modo soffermarsi sulle glorie passate: i momenti di crisi e gli incidenti di percorso sono molto più interessanti e perfino divertenti da raccontare. Venne per esempio la volta in cui mi cimentai con la produzione di quaranta litri di bière blanche, ma al momento dell'apertura del fermentatore distolsi lo sguardo inorridito: dal contenuto emanava una puzza inconfondibile e nauseabonda di uova marce, che mi spinse naturalmente a pensare al peggio: era forse all'opera una temibile infezione batterica che aveva compromesso la cotta? Già mi preparavo spiritualmente a gettare tutto nel lavandino, quando un amico più esperto mi raccomandò pazienza: potevo comunque provare ad imbottigliare, sperando per il meglio. Alla fine aveva proprio ragione lui: dopo la maturazione in bottiglia il tanfo era scomparso, riassorbito da qualche strano processo chimico - biologico. Sono situazioni in cui è meglio non porsi troppe domande: la birra venne regolarmente consumata senza alcun effetto collaterale, ed io sono tuttora in vita per raccontarlo.
Anche la fermentazione del mosto può comportare alcuni inconvenienti, soprattutto quando nei primissimi giorni della cotta la fase tumultuosa si trasfigura per diventare furibonda nel senso più proprio del termine. Incontrai questo problema durante una delle prime cotte di birra stout: la ricetta era particolarmente calorica, il lievito liquido partito con la rincorsa, il fermentatore aveva forse dimensioni troppo ridotte in proporzione alla quantità di liquido, tanto che la schiuma sotto pressione cominciò a fuoriuscire in modo costante ed ostinato dal piccolo sifone chiamato in gergo tecnico gorgogliatore, mentre io passai i successivi tre giorni  a ripulire con la spugna quella densa schifezza dalle piastrelle del bagno.
Negli anni successivi l'entropia lavorativa ebbe la meglio, tanto che da autonominato mastro birraio a chilometri zero diventai in breve tempo semplice appassionato di birra ad ettolitri zero. Finito il tempo del Come, mi restò il Cosa e ad ogni modo feci di necessità virtù.

giovedì 27 giugno 2019

IL RAGNO DELLE DOLOMITI

Ho conosciuto Cesare Maestri a Feltre nel mese di marzo del 2006, durante una conferenza organizzata nei locali della sede universitaria dello IULM, e già allora avevo letto quasi tutti i suoi libri. Collaboravo da qualche tempo col Corriere delle Alpi di Belluno, al quale consegnai in seguito questo articolo per documentare l'incontro pubblico.
L'alpinista di Campiglio mi ha sempre ispirato una certa dose di simpatia per i suoi trascorsi avventurosi ed il suo modo scanzonato, a tratti addirittura irriverente, di affrontare la montagna, il rischio e le avversità della vita. Certo, la mia idea personale di approccio con l'ambiente naturale è diametralmente opposta alla sua, ed al giorno d'oggi certe sue esperienze ed atteggiamenti protagonistici assunti in gioventù risulterebbero di certo fuori posto.
Ma si tratta appunto di peccati di gioventù, se proprio peccati vogliamo definirli: in più di una occasione (anche durante la conferenza descritta nell'articolo) Cesare stesso ha infatti espresso una parziale autocritica riguardo agli episodi maggiormente sopra le righe, e dunque la mia stima nei suoi confronti rimane immutata.
Trascuro in via del tutto intenzionale di soffermarmi o di esprimere giudizi sulle sue esperienze alpinistiche in terra patagonica poiché non possiedo le informazioni, né i titoli per sottoscrivere qualunque posizione su questo argomento.

FELTRE. Cesare Maestri non dà proprio l'impressione di essere una persona che si accontenta o persegue la comodità come massimo valore della vita. Per rendersene conto basta analizzare la sua esperienza personale di alpinista. Proviene da una famiglia di attori, suo fratello era un doppiatore cinematografico di talento ed anche per il giovane Cesare, che nel primo dopoguerra non era ancora il Ragno delle Dolomiti, l'avvenire sembrava prospettare inizialmente una carriera nel mondo dello spettacolo. «Ho scelto un palcoscenico diverso per la mia vita», confessa tuttavia l'anziano scalatore trentino tornando con la memoria alle scelte di vita intraprese sessant'anni addietro: «Nelle poche pellicole di montagna che ho girato, l'unico ruolo che riuscivo ad interpretare bene era quello di me stesso. Non si trattava decisamente di un mestiere adatto al sottoscritto. Non ho mai risolto fino in fondo il dilemma se gli attori abbiano così tanta personalità da poter assumere nello stesso tempo ruoli diversi, oppure al contrario se non posseggano una identità propria».
Non ha mezze misure l'anziano alpinista di Madonna di Campiglio, intervenuto nel pomeriggio di giovedì scorso allo IULM di Feltre come ospite del ciclo di incontri Testimoni di valori umani e sociali. Proprio il tema principale della conferenza della quale è stato relatore, il coraggio, mette in luce Cesare Maestri come una personalità che predilige le scelte nette: «La sindrome dell'eroe è sempre stata nel bene e nel male una mia caratteristica fin dagli anni della gioventù, è questo il modo in cui non posso fare a meno di vedere me stesso, sono un esibizionista inguaribile. Col passare degli anni questo atteggiamento si è certamente trasformato: da giovani si crede di poter cambiare il mondo, mentre in seguito si scopre che è sempre l'ambiente esterno a condizionarci e ad avere l'ultima parola».
Non dobbiamo tuttavia commettere l'errore di credere che stiamo parlando di una virtù concessa per grazia ricevuta solo a poche persone. «Coraggio e paura stanno sempre fianco a fianco dentro ognuno di noi,» spiega Maestri davanti alla platea di studenti universitari e appassionati della montagna, «proprio la paura insita in ogni essere umano è il vero termometro per misurare quanto riusciamo ad essere positivi anche nei momenti difficili». Ed è alla luce di queste considerazioni che il primo, celebrato salitore del Cerro Torre rievoca alcuni degli episodi della sua esistenza da lui ritenuti più formativi: i duri anni della guerra, quando per pochi amanti del rischio era possibile sbarcare il lunario anche ricorrendo a piccoli furti e sabotaggi nelle caserme nazifasciste; le temerarie scalate degli esordi sulle cime di Brenta e la decisione di cominciare ad andare in montagna rigorosamente da solo; l'ultima grande avventura extraeuropea vissuta solo quattro anni addietro, durante il tentativo di salita sugli 8000 metri dello Shisha Pangma sul tetto del mondo.
«Quando praticavo l'alpinismo da dilettante, un'attività scoperta per caso e che è diventata col tempo la mia occupazione quasi a tempo pieno, confesso di essere stato in verità anche un po' incosciente», racconta ancora Maestri. «Vedendomi scalare in solitaria, molte volte anche in discesa e senza ricorrere alle corde doppie, erano in molti gli esperti di montagna che profetizzavano il mio imminente decesso per eccessivo disprezzo del rischio. Se sono sopravvissuto, e sono ancora qui oggi a raccontarlo, lo devo agli allenamenti quotidiani, alla padronanza della tecnica e al rispetto verso la roccia». A titolo di spiegazione, Cesare sottolinea tuttavia anche la difficile situazione economica caratteristica degli anni del secondo dopoguerra: «Non mi vergogno di raccontare che una volta ho perfino accettato un assegno dal direttore di un giornale come compenso per andare a percorrere una via. Oggi questo modo di fare potrebbe sembrare inopportuno, ma in quel tempo era anche così che mi guadagnavo da vivere. Mi sentivo un artista, e nel ruolo creativo che è proprio degli artisti mi sentivo autorizzato a vendere il mio prodotto, come se si fosse trattato di un quadro o una scultura».
Prima dei saluti finali, molti tra gli spettatori propongono interrogativi sollecitando il giudizio tecnico del relatore. Esiste un'età giusta per smettere di arrampicare?, chiede qualcuno tra il pubblico: «Io ho lasciato l'alpinismo di punta abbastanza presto,» è la risposta di Maestri, «ma non per questo ho rinunciato ad andare in montagna o a mettermi in discussione con nuove sfide. Non esiste un'età per tirare i remi in barca, bensì piuttosto un momento per cominciare a rivedere i propri obiettivi ed accontentarsi di ciò che sta alla nostra portata».

venerdì 21 giugno 2019

INGORGHI DI STAGIONE

Giunge infine il solstizio del 21 giugno, e nella serata più lunga dell'anno tutto sembra suggerire l'imminenza di un'estate assai torrida (magari mi sbaglierò, ma le previsioni meteorologiche a breve termine puntano tutte in questa direzione). Alle basse quote con ogni probabilità sarà senz'altro così, ma da tempi immemorabili chi abita le Terre Alte è abituato al fatto che non esiste nulla di più sfuggente, sfumato, precario ed effimero rispetto a quanto per convenzione ed abitudine nominiamo la bella stagione. Le diverse epoche dell'anno vanno, vengono, si incrociano, si sovrappongono: uno crede per esempio di trovarsi in piena estate, quand'ecco che una spietata perturbazione anomala lo riporta a pieno titolo fra le braccia del Generale Inverno in men che non si dica.
A puro titolo di esempio pubblico questa sera alcune immagini scattate giusto dieci anni addietro nelle vicinanze del Passo Pordoi, e più precisamente lungo il tracciato del sentiero Viel Dal Pan: l'uscita in questione aveva avuto luogo insieme ad alcuni amici alla fine del mese di luglio e dunque con le fioriture d'alta quota ormai in fase avanzata, ma la neve aveva deciso ugualmente di metterci lo zampino. Per la cronaca, il giorno seguente sul vicino Piz Boè neve e ghiaccio vetrato si comportavano da padroni incontrastati.
Per fare fronte a questa e ad altre situazioni incresciose, lo zaino dell'escursionista anche di media montagna, come del resto allo scrivente piace immaginarsi, dovrebbe di preferenza contenere una dotazione essenziale di equipaggiamento quattro stagioni, come del resto già avviene con la pizza e la sacra automobile. A tale proposito ho osservato in più occasioni come il mio bagaglio domenicale non presenti in effetti molte differenze fra estate ed inverno: buona parte dell'abbigliamento del camminatore, nonostante la concreta possibilità di restare inutilizzato, deve ugualmente rimanere di scorta nello zaino da trentacinque litri per ogni evenienza. Chissà... magari sono sulla buona strada!

giovedì 6 giugno 2019

LE AVVENTURE DEL MORETTO

Non mi piace scrivere sempre di me stesso, e ripropongo dopo qualche anno questa recensione già pubblicata nel 2006 nel mio precedente blog su piattaforma Splinder. Si tratta di una biografia che ho letto per la prima volta nell'anno del mio servizio civile alla fine dei Novanta, e che in qualche modo ha segnato il mio immaginario giovanile. Vivesse ai giorni nostri, il protagonista di questa storia verrebbe annoverato fra i cosiddetti cattivi: bombarolo, terrorista, mercenario, addirittura persecutore dei Nativi Americani. Questi sono gli appellativi che forse gli verrebbero assegnati. Ma era un'altra epoca, e non bisogna commettere l'errore di giudicare la storia col modo di pensare di oggi: il Moretto, com'era conosciuto Carlo di Rudio nell'infanzia bellunese, fu di certo anche trascinato dalle circostanze ed è il testimone di un tempo nel quale viaggiare fino all'altro capo del mondo era un'impresa ed un'avventura per pochi. Qualcuno partiva con destinazione incerta, pochi sopravvivevano e quasi nessuno tornava. Egli stesso non fece eccezione.

Il 25 giugno 1876, sono passati oltre 140 anni, si combatteva sulle praterie nordamericane la battaglia del Little Bighorn in cui perse la vita il colonnello George Armstrong Custer. La storia è stata rievocata, spesso con una buona dose di fantasia aggiunta, in un numero imprecisato di pellicole cinematografiche: se tra i lettori del blog si annida qualche appassionato di fumetti Bonelli come Tex o Magico Vento non ci sarà certo bisogno di raccontare ancora un volta cosa avvenne in quel combattimento tra Pellerossa e Giacche Blu. Mi piace tuttavia ricordare questo episodio storico perché ad esso prese parte anche un mio compaesano.
E non mi riferisco al già famoso Giovanni Martini, che era Campano di origine e fu il trombettiere di giornata di Custer portatore della richiesta di aiuto indirizzata al Maggiore Frederick Benteen: sul campo di battaglia quel giorno, oltre a numerosi altri italiani, c'era infatti anche il bellunese Carlo Camillo di Rudio, nato ai piedi del monte Serva nel 1832 e morto a Pasadena il 1 novembre 1910. A titolo di documentazione, per quanto desiderassero approfondire questa affascinante narrazione, segnalo il libro Dal Piave al Little Bighorn, scritto nel 1996 da Cesare Marino e dato alle stampe a Belluno da Alessandro Tarantola Editore.
Impiegherò solo poche righe per raccontare in breve cosa combinò in giro per il mondo questo irrequieto personaggio. Carlo era figlio del conte Ercole Rudio ed apparteneva alla nobiltà spiantata della cittadina dolomitica. Dopo un esordio di carriera come cadetto austriaco, venne coinvolto nei moti del Risorgimento italiano: prese parte ai combattimenti di Venezia e della Repubblica Romana nel 1848, fu amico di Pietro Fortunato Calvi e Giuseppe Mazzini, conobbe Giuseppe Garibaldi. Nel 1858 partecipò all'attentato contro Napoleone III in complicità con Felice Orsini ma venne catturato e deportato nella colonia penale della Cajenna. Riuscì tuttavia ad evadere e a rientrare di nascosto in Europa dopo pochi mesi di reclusione.
Ma nel vecchio continente la terra gli scottava ormai sotto i piedi, tanto che a trentun anni di età anni il Nostro sbarcò a New York dove proseguì la sua carriera militare arruolandosi nell'esercito degli Yankees e finendo a combattere nella Guerra di Secessione. Diventato Charles DeRudio, il nome che compare ancora oggi sulla sua tomba a San Francisco, il nobile bellunese venne aggregato al Settimo Cavalleggeri di Custer e passò ancora una volta indenne attraverso l'epico scontro tra Capelli Gialli, Sitting Bull e Crazy Horse. Incredibile a dirsi, morì tranquillamente di vecchiaia assistito dalla sua famiglia, sebbene in patria al giorno d'oggi quasi nessuno ricordi più il suo nome.

mercoledì 29 maggio 2019

A CASA DI HEIDI

In un articolo di qualche settimana addietro ho colpevolmente scordato una baggianata panoramica tra le peggiori di sempre: «In montagna si mangia sempre bene, e alla fine ci si lecca pure le dita». Nulla di più lontano dal vero, ovvio. Ricordo ai più distratti che la nozione di baggianata panoramica comprende affermazioni di apparente buonsenso basate il più delle volte soltanto sul sentito dire, dogmi fai - da - te che potrebbero anche corrispondere al vero in diverse situazioni concrete ma si dimostrano inaffidabili di fronte a sconcertanti casi particolari. Correva l'anno 2012, quando fui testimone diretto di un evento significativo in tal senso. Spiego in primo luogo l'antefatto.
Insieme ad una ridotta ma affiatata compagnia di camminatori mi trovavo sul suolo francese, e più in particolare nelle immediate vicinanze di Chamonix. Era il mese di agosto ed il nostro itinerario lungo ben nove giorni consisteva nel Grand Tour du Mont Blanc, il giro completo del massiccio del Monte Bianco da Courmayeur a Courmayeur attraverso Italia, Svizzera e Francia, oltre settemila metri di dislivello con diversi valichi alpini d'alta quota da superare. Forse è superfluo precisarlo, ma si tratta di uno dei più emozionanti e coinvolgenti itinerari escursionistici che al giorno d'oggi si possono intraprendere a livello europeo: oltre che per la simpatica comitiva di cui facevo parte, io lo ricordo in particolare per la vicinanza costante e grandiosa ai mirabili ghiacciai cui da buon Dolomitico non ero abituato. Certo, il riscaldamento globale si fa ormai sentire anche quassù e bisogna ammettere che le lingue di ghiaccio si sono conservate assai meglio sui versanti francese e svizzero che sono rivolti verso nord - ovest e godono dunque di un'esposizione più favorevole. Sul lato italiano, come risulta più evidente per esempio in Val Veny, si intuisce il passato splendore di questo gigante di roccia e ghiaccio ma oggi bisogna accontentarsi di larghe autostrade di ghiaia dove ogni traccia di permafrost è solo un lontano ricordo.
Questo l'itinerario seguito dal nostro gruppo, descritto per sommi capi. Lasciato Courmayeur e risalita per intero la Val Ferret, si passa in territorio svizzero e mediante un breve trasferimento in autocorriera si giunge a Champex sulle rive dell'omonimo lago. Sempre in terra elvetica, si prosegue di nuovo a piedi alla volta di Trient valicando la Fenètre de l'Arpette che noi abbiamo affrontato sotto un furioso temporale. Si arriva infine in Francia per il Col de Balme, dal quale si coglie con un unico sguardo la vallata di Chamonix che si attraversa integralmente sulla destra orografica, lungo il massiccio delle Aiguilles Rouges. Dopo le tappe intermedie del rifugio La Flegère e Col Brevent, nei pressi di Les Houches si scende dapprima sul fondovalle per attraversare in seguito il tracciato del trenino a cremagliera che si arrampica fino ai 2400 metri del Nido d'Aquila. Seguono la verde conca del Lac Jovet, la Ville des Glaciers circondata da pareti di cristallo, ed infine il rientro in Italia sul valico del Col de La Seigne. Un ultimo pernottamento al rifugio CAI Elisabetta Soldini, e già siamo di ritorno a Courmayeur.
Dopo un paio di tappe particolarmente impegnative sotto l'aspetto fisico (non scordiamo che si viaggiava con lo zainone da cinquanta litri in stile Alta Via), un bel giorno eravamo tutti cotti al punto giusto ed in vena di rilassarci con le gambe allungate sotto un tavolo. Il piccolo rifugio privato dove avremmo pernottato era sì leggermente spartano e con le comodità ridotte all'essenziale: ma cosa volete che sia, per una compagnia di escursionisti disidratati che avevano già alle spalle buona parte del perimetro del tetto d'Europa? Semplici dettagli, niente di più. Inoltre, sembrava proprio di stare a casa di Heidi: era una fiabesca serata estiva, il tramonto accendeva di rosso i ghiacciai sopra le nostre teste e l'unico rumore percepibile era un leggero vento che accarezzava l'erba sui pascoli circostanti. Cos'altro potevamo desiderare? Mangiare e bere a volontà, c'è forse bisogno di precisarlo?
E qui si presentò la prima, spiacevole sorpresa: il rifugio non possedeva una licenza per la vendita di alcolici, dunque avremmo trascorso la serata in meditazione salutistica come degli asceti, senza nemmeno la possibilità di reintegrare i sospirati sali minerali. La sorpresa numero due ci lasciò disorientati: in tavola per cena venne servito un deprimente vassoio pieno di pasta in bianco, varietà a grano tenero, rigorosamente scotta e senza condimento. Per pura cortesia, venne aggiunto su nostra richiesta qualche cubetto di burro del menu colazione in modo da far fronte al nostro evidente sgomento. Il colpo di grazia arrivò con la sorpresa numero tre: dessert a base di gelatina dolce tremolante, che puzzava di colorante chimico a distanza di cinque metri. Come avremmo potuto reagire, di fronte ad una simile Caporetto gastronomica? L'unica soluzione era fare buon viso a cattivo gioco: ci ritirammo in buon ordine verso le brande con grande fiducia nel futuro benevolo, traendo conforto insperato dalla somma ed ennesima baggianata panoramica trita e ritrita: «Soltanto nei rifugi italiani si mangia veramente bene!»